Killa Dizez


KILLA DIZEZ nello slang creolo della Sierra Leone significa “malattia assassina”, una derivante krio dell’inglese Killer Disease.

Per Killa Dizez si intende il virus ebola (Evd), che dalla prima metà del 2014 fino agli ultimi mesi del 2015 ha contagiato più di venticinque mila persone mietendo oltre undici mila vittime in Africa Occidentale: secondo i dati ufficiali si tratterebbe della più grave epidemia del genere mai registrata.

Una vera e propria piaga che ha sconvolto il continente africano mettendo in allerta l’Organizzazione Mondiale della Sanità e tutti gli organismi non-governativi attivi in quell’area geografica: da Medici Senza Frontiere a Emergency sino alla Croce Rossa.

Ricorderete sicuramente l’episodio che vide protagonista lo sfortunato volontario spagnolo Miguel Pajeres nel torrido agosto del 2014: contagiato dal virus, fu rimpatriato in Europa attirando l’attenzione dei media europei fino ad all’ora impegnati su argomenti di maggiore attualità come la crisi economica e quella migratoria.

Ma l’eco mediatica durò pochissimo: l’allarme rientrò immediatamente e il virus ebola ritornò rapidamente nell’abisso dell’agenda dei media occidentali assieme alle migliaia di vittime africane dell’epidemia.

Proprio la scarsa attenzione nei confronti della catastrofe umanitaria scatenatasi in Africa Occidentale fu la motivazione che spinse Nico Piro, giornalista inviato di Rai Tre, a partire per la Sierra Leone del mese di gennaio 2015, trovandosi casualmente nel mezzo di un violento picco dell’epidemia.

Non trovando l’appoggio dei media italiani il giornalista salernitano non volle rinunciare al progetto e decise di produrlo in autonomia, partendo per l’Africa Occidentale durante il periodo di ferie dal lavoro fiancheggiato dall’OGN Emergency Italia.

L’obiettivo di Nico era girare un documentario, offrire una testimonianza della drammatica situazione in cui erano coinvolti quotidianamente i sierraleonesi e i volontari di Emergency.

Oggi, a più di 12 mesi dalla sua partenza e nel pieno di un tour di presentazioni del film in tutta Italia, possiamo affermare che Nico è riuscito pienamente nel suo intento.

Qui sotto una breve recensione del film dopo l’incontro avvenuto alla Casa del Cinema di Roma il 26 gennaio 2016 alla presenza dell’autore e di Rossella Miccio, rappresentante di Emergency Italia.

KILLA DIZEZ – VITA E MORTE AL TEMPO DI EBOLA è un documentario di stampo giornalistico che ricorda i reportage fotografici di Sebastiao Salgado nel rigore e nel coraggio dell’affrontare tematiche come le epidemie, la sofferenza e la morte.

Piro non usa mezzi termini e s’immerge a capo fitto nelle difficoltà e nei pericoli che comporta un contesto del genere: egli non teme di portare con se lo spettatore, coinvolgendolo nel proprio viaggio e rendendolo partecipe delle informazioni, degli incontri e delle storie degli esseri umani che, volontariamente o meno, si sono incrociati in questo dramma collettivo.

Un registro stilistico prevalentemente giornalistico che privilegia il linguaggio informativo attraverso l’utilizzo di strumenti come la voice off e le didascalie, pur non pretendendo l’oggettivizzazione degli eventi ma, al contrario, mettendo lo spettatore in condizione di vivere personalmente e di sperimentare in prima persona le condizioni difficili che si è costretti ad affrontare. Ad esempio colpisce particolarmente la sequenza in soggettiva delle procedure d’ingresso alle strutture di ricovero, in cui l’immedesimazione integrale nello sguardo di Piro contribuisce a trasmettere interamente la tensione che comporta essere a stretto contatto con un nemico misterioso, invisibile, spietato.

In una zona di guerra vedi un sacco di gente morta e ferita. Ma è subito chiaro quale sia la situazione. Qui stiamo combattendo qualcosa di invisibile”

Nico Piro si concentra per buona parte del documentario sulle testimonianze e sulle vicissitudini dei medici di Emergency provenienti da tutto il mondo: persone con cui è difficile non provare empatia, uomini e donne comuni nella loro umanità ma allo stesso tempo instancabili professionisti che affrontano ogni giorno un male ad oggi ancora sconosciuto e, di conseguenza, temibilissimo.

Ma è nel racconto dei sierraleonesi che il film diventa davvero potente svelando anche il punto di vista più emotivo e personale dell’autore: il lirismo disincantato della sequenza del porto di Aberdeen è quasi una tregua dall’inferno della città di Freetown, capitale brulicante in cui le pessime condizioni di vita aprono scenari catastrofici nella mente dell’autore e dello spettatore.

Ma, come scopriremo in seguito, neanche i pescatori di Aberdeen saranno risparmiati dall’epidemia.

Giovani alti e robusti ridotti in ventiquattro ore in degli spettri” li definisce l’autore, raccontando con freddezza e rispetto fino all’impressionante sequenza delle sepolture nel cimitero di Freetown.

L’epilogo del documentario lascia spazio alla speranza, che si concretizza nella bambina dimessa dal centro di cura per tornare a casa e ricominciare la propria vita nell’affollata baraccopoli cittadina.

All’apparenza fragilissima ma in realtà abbastanza forte da sconfiggere l’epidemia: la piccola è forse il simbolo di un continente (e di un’umanità) che porta dentro di se il seme di una misteriosa energia capace di fronteggiare e sconfiggere anche le minacce più terribili; un seme che, ci suggerisce il documentario di Nico Piro, fa fatica a germogliare nell’indifferenza e nella disinformazione, ma che trova nel contatto umano e nell’impegno la speranza di fiorire.

Piccola riflessione sulle musiche:

Tra le numerose conseguenze sociali dell’epidemia c’è la nascita di un vero e proprio sottogenere musicale in Africa Occidentale: le cosiddette “Ebola Song”, una maniera del tutto nuova da parte della popolazione di esorcizzare il demone del virus in chiave african-pop che ricorda vagamente le preghiere gospel cristiano-metodiste delle comunità afro-americane.

L’utilizzo di queste canzoni come colonna sonora del documentario è una scelta logica che crea un risultato bizzarro: il tono allegro e speranzoso dei pezzi musicali affiancato a scene drammatiche produce, infatti, una sensazione di spaesamento che lascia a volte perplessi.

Di sicuro però il fenomeno delle Ebola Song è antropologicamente molto interessante, e probabilmente meriterebbe un intero documentario dedicato.

Domenico Centrone